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Il prezioso dono di venticinque viticoltori eroici

La scelta coraggiosa dei fondatori della Cantina di Solopaca

Per venticinque coltivatori diretti solopachesi quella tra il 24 e il 25 settembre del 1966 fu una notte lunghissima. Un vegliare tra sogni e timori, ulteriormente dilatato dal passaggio dall’ora solare a quella legale, reintrodotta in Italia proprio in quel 1966. La vendemmia era da poco iniziata in quest’angolo della terra sannita storicamente segnato dalla vite. E tutto faceva presagire che anche quella del 1966 non sarebbe stata assolutamente una vendemmia serena, segnata per l’ennesima volta dalla speculazione messa in campo dai grandi commercianti di uve.
Fu questa la molle più forte che indusse venticinque agricoltori a firmare quella sera – nell’abitazione di Andrea Colella, sita alla via Taverna – la costituzione della Cooperativa a responsabilità limitata con la denominazione di ‘Cantina sociale di Solopaca’, con sede in Solopaca alla via Roma, numero 32. Erano tutti «proprietari coltivatori diretti di fondi investiti a vigneti in tutto o in parte nel territorio del Comune di Solopaca e vicinori, residenti in Solopaca». Lo scopo di questa cooperativa veniva descritto all’articolo A dello Statuto che venne allegato all’Atto costitutivo, dove si evidenziava la volontà «di ottenere, tramite la gestione in forma associata dell’azienda, le migliori condizioni economiche, sociali e professionali».

A firmare quel testamento ambizioso e coraggioso furono:

Andrea Colella, nato a Solopaca il 12 novembre 1914;

Albino Colella, nato a Solopaca il 1° gennaio 1916;

Pasquale Colella, nato a Solopaca il 9 dicembre 1926;

Benedetto Colella, nato a Solopaca il 4 marzo 1913;

Giuseppe Colella, nato a Solopaca il 14 febbraio 1912;

Tommaso Colella, nato a Solopaca il 2 giugno 1934;

Giuseppe Di Carlo, nato a Solopaca il 27 settembre 1920;

Vittorio Di Carlo, nato a Solopaca il 10 febbraio 1933;

Vincenzo Franco, nato a Solopaca il 29 giugno 1913;

Errico Canelli, nato a Solopaca il 6 agosto 1935;

Pompilio Gaudino, nato a Solopaca il 14 dicembre 1904;

Emilio Gaudino, nato a Solopaca il 3 marzo 1910;

Pasquale Gaudino, nato a Solopaca l’11 settembre 1933;

Giuseppe Mancino, nato a Solopaca il 6 settembre 1912;

Giuseppe Maturo, nato a Solopaca il 10 maggio 1896;

Giuseppe Riccardi, nato a Solopaca il 18 marzo 1904;

Emilio Riccardi, nato a Solopaca il 4 dicembre 1908;

Pompilio Tommasiello, nato a Solopaca il 1° giugno 1919;

Giuseppe Volpe, nato a Solopaca il 2 gennaio 1925;

Vittorio Franco, nato a Solopaca il 3 settembre 1911;

Federico Forgione, nato a Solopaca il 7 maggio 1914;

Ernesto Forgione, nato a Solopaca il 9 dicembre 1911;

Arturo Tammaro, nato a Solopaca l’11 agosto 1926; 

Giuseppe Colangelo, nato a Solopaca il 19 gennaio 1904;

Pasquale Fiore, nato a Vitulano il 22 ottobre 1930.

Il più anziano aveva settanta anni; il più giovane di anni ne aveva trentuno; età media quarantanove anni. A raccogliere e validare le firme fu il notaio frassese Antonio Di Cerbo.
Presente anche l’allora assessore all’Agricoltura della Regione Campania, Roberto Costanzo, che tanto si adoperò, dopo gli impegni per dar vita a ‘La Guardiense’, per veder nascere anche questa seconda cantina sociale sannita.
In quella stessa sede i venticinque soci fondatori, riuniti in  assemblea generale,  conferirono all’unanimità le prima cariche sociali. Furono eletti amministratori: Andrea Colella, Tommaso Colella, Giuseppe Di Carlo, Giuseppe Mancino, Emilio Riccardi, Vittorio Franco e Giuseppe Volpe. Tra questi Andrea Colella venne indicato alla presidenza mentre la vicepresidenza toccò a  Tommaso Colella. Eletti a Sindaci effettivi: Arturo Tammaro (indicato presidente del Collegio sindacale), Federico Forgione e Pompilio Tommasiello. Sindaci supplenti vennero indicati Errico Canelli e Pasquale Gaudino. Infine l’individuazione del Collegio dei Probiviri, composto da: Giuseppe Maturo (presidente), Pasquale Fiore e Vincenzo Franco.

La nascita della Cantina sociale di Solopaca fu dunque legata ad un momento non semplice della viticoltura sannita. Un periodo che faceva registrare tra i viticoltori solopachesi – e tra tutti quelli della Valle Telesina – un’escalation di dubbi e timori circa un futuro sempre più incerto, in uno scenario agricolo fortemente caratterizzato, anche a livello nazionale, dalle funeste conseguenze del triste fenomeno dello svuotamento delle campagne.
Era questo il peso – che nel Sannio si avvertiva particolarmente forte – delle conseguenze di una politica agricola nazionale che, all’indomani della seconda guerra mondiale, si incamminò soprattutto lungo la strada di una imponente, ma poco attenta, crescita produttiva. Una scelta che portò, in circa un trentennio, al duplicamento dei quantitativi prodotti, con il passaggio dai 36 milioni di ettolitri medi annui degli Anni Quaranta ai 72 milioni di ettolitri degli Anni Settanta. Una politica di settore, dunque, ispirata da principi eminentemente “quantitativi”, con la preferenza spesso accordata a vitigni a forte rendimento e a bassa intensità di cure, e con una spinta alla meccanizzazione degli impianti attraverso la realizzazione di sistemazioni più adatte. Il contesto di forte incremento quantitativo, ma di prezzi del vino calanti (con la breve eccezione del periodo 1954-59), alla fine incise fortemente sui processi di abbandono degli spazi viticoli, soprattutto laddove inseriti in quadri locali di forte emigrazione e di conseguente svuotamento delle campagne.

Tra la fine degli Anni Cinquanta e gli inizi degli Anni Sessanta le prospettive nel settore vinicolo si fecero particolarmente cupe, a causa della forte stasi che registrava il mercato a livello nazionale e che determinava una notevole giacenza di prodotto invenduto. In questo scenario si registrarono forti impegni dei rappresentanti del mondo agricolo, in particolare della Coldiretti, l’associazione guidata da Paolo Bonomi, che ne era stato il fondatore oltre un ventennio prima. Bonomi, in qualità di deputato della Democrazia Cristiana, si fece primo firmatario di diverse proposte di leggi, fortemente preoccupato dai risvolti legati alla grande produzione, che nel 1958 raggiunse la quota di 104 milioni quintali di uva, con una resa di vino di circa 70 milioni di ettolitri.
A poco servirono gli interventi messi in campo a partire dal 1957, quando lo Stato, attraverso il decreto legislativo 14 settembre 1957, numero 812, convertito nell’ottobre successivo nella legge numero 1031, ebbe ad intervenire con lo stanziamento di 500 milioni di lire per la concessione di un contributo negli interessi sui mutui contratti dagli Enti gestori degli ammassi volontari di uva e delle Cantine sociali. Provvedimenti che nel giro di soli due anni contribuirono a sottrarre al libero mercato circa 9 milioni di quintali di uva, senza però portare grande aiuto ad un settore produttivo sempre più soggetto a crisi ricorrenti.
Sempre nell’ambito delle iniziative messe in campo sotto la spinta di Bonomi e della Coldiretti giunsero altri provvedimenti organici  atti  a  rimuovere  le  cause che concorrevano  alla  determinazione  delle  crisi frequenti, quali le  agevolazioni  fiscali  per  la  distillazione  del  vino, provvedimenti  per  la  graduale  riduzione  della  imposta  di consumo  sul  vino  e per  la  riduzione  delle sovrimposte  comunali e provinciali sui terreni,  con  particolare  riguardo  alle aziende  viticole. Tra queste richieste non mancò nemmeno quella di concedere  congrui contributi  per favorire  l’istituzione  di  nuove  cantine  sociali e per facilitare  il  credito alle cantine  sociali esistenti  per sopperire alle  esigenze  di  gestione, prevedendo  la  possibilità del concorso dello  Stato  nel  pagamento  degli  interessi.

Anche nel Sannio, sul finire degli Anni Cinquanta, si assistette ad un continuo rialzo della produzione, che segnò la fine di un decennio in realtà in diversi frangenti contraddistinto  da sensibili contrazioni. All’indomani della seconda guerra mondiale, infatti, si lavorò non poco per raggiungere i livelli quantitativi che segnavano la produzione alla vigilia del conflitto. Infatti, se nel 1938 la produzione di uva nel Sannio arrivò a superare un milione di quintali (1.081.000 quintali), nel 1948 essa fu sola di 697.430 quintali. E se nel 1949 l’uva prodotta toccò nuovamente il milione di quintali (1.023.490 quintali), già l’anno successivo si registrò un nuovo arretrare del dato, che toccò la somma di 813.310 quintali. E nel 1951 la cifra scese ancora, fermandosi a 728.210 quintali di uva. Fu questa una diminuzione legata soprattutto alla crisi dei prezzi agricoli rispetto a quelli industriali: il prezzo dell’uva nel periodo considerato scese di circa la metà del valore, mentre erano aumentati notevolmente i costi di produzione, se si considera che solo quello del solfato di rame salì di circa il 150%.
In questo scenario diventò particolarmente difficile affrontare quelle esigenze di un ammodernamento dei sistemi di produzione, frenato in particolar modo anche da un non facile accesso ai finanziamenti statali e soprattutto dall’assenza di cooperative di produzione. Per queste circostanze la spinta alla meccanizzazione nel Sannio prenderà slancio in ritardo rispetto ad altre zone della Penisola. I motocoltivatori attivi in terra sannita, inesistenti all’inizio del decennio, saranno solo 173 nel 1961. Il vero boom si registrò nei decenni successivi, con la cifra di 5.736 motocoltivatori toccata nel 1970 e di 21.650 motocoltivatori registrata nel 1982.
Allo stesso tempo, anche il processo di specializzazione della viticoltura, come vedremo più avanti, sarà in sostanza ritardato – rispetto alle altre zone della Penisola – di circa un decennio, con una forte ascesa della superficie specializzata ed un netto calo di quella promiscua che si registrò solo a partire dalla seconda metà degli Anni Sessanta.

Altro fattore che causò questo ritardo fu senza dubbio legato alle caratteristiche di un’agricoltura (e viticoltura)  che si fondava quasi esclusivamente su aziende di piccole dimensioni, in genere basata sulla divisione del lavoro tra tutti i membri della stessa famiglia. Era sicuramente questa la figura più diffusa di conduzione aziendale. «Dall’indagine dell’Istituto Nazionale di Economia Agraria sulla distribuzione della proprietà fondiaria in Italia nel 1947, in provincia di Benevento – descrive Vittoria Ferrandino nel saggio ‘L’agricoltura sannita tra arretratezza e ammodernamento. Credito agrario e innovazione nel Novecento’ – risultavano 126.172 aziende agricole che occupavano una superficie di 195.131 ettari, con una media per azienda di poco superiore a 1,5 ettari. La grande proprietà era concessa in affitto; le medie aziende, i cui proprietari normalmente risiedevano in paese dove esercitavano professioni diverse, erano date a colonia, secondo contratti misti di economia, mezzadria e affitto;  le piccole aziende erano coltivate direttamente dai proprietari e dai familiari che, quando gli appezzamenti erano piccolissimi, prestavano anche lavoro a giornata presso altre aziende. In decadenza era il contratto   di enfiteusi  derivante dalla quotizzazione dei beni ex ecclesiastici, tanto che, secondo i dati approssimativi forniti dall’Ispettorato provinciale dell’agricoltura, nel 1951, se ne contavano appena 150 rispetto ai 300 rilevati nel 1938».
In sostanza, le aziende definite piccole proprietà, vale a dire quelle con una superficie aziendale fino a 10 ettari, costituivano oltre il 98% del totale, occupando oltre il 60% dell’intera superficie coltivata provinciale, con un’ampiezza media per azienda che non arrivava nemmeno ad un ettaro. Dal quadro tracciato dalla Ferrandino emerge che  la maggior parte di queste aziende non superava i due ettari, con una media per azienda di appena mezzo ettaro. Non arrivava nemmeno all’1,5% la percentuale della media proprietà, quella con una superficie aziendale compresa tra 10 e 50 ettari, con le aziende che presentavano una superficie media di 18,7 ettari. Per quanto concerne la grande proprietà, quella superiore ai 50 ettari,  si contavano nell’intero Sannio solo 232 aziende, pari allo 0,2% del totale, che però detenevano oltre il 22% della superficie complessiva, con un’ampiezza media che superava i 185 ettari. Solo quattro aziende, infine, possedevano più di 1.000 ettari, con una superficie complessiva di 7.364 ettari.
Alla luce di questi numeri emerge il dato che nel 1951 il numero dei coltivatori diretti, che ammontava a 135.000, fosse più alto rispetto alla vigilia della guerra, quando (il riferimento è all’anno 1938) in provincia se ne contavano 120.000; così come erano aumentati anche i mezzadri, passati nello stesso periodo da circa 13.000 a circa 20.000; i fittavoli diminuirono da circa 6.000 a circa 4.000; diminuirono anche i braccianti, che passarono da circa 2.000 a circa 1.700.   

A distanza di circa quindici anni dal rapporto dell’Istituto Nazionale dell’Economia Agraria, il primo Censimento generale dell’agricoltura del 1961 mostrava una situazione leggermente trasformata. La differenza più evidente riguardava il numero delle aziende, che scese di parecchio, mentre la superficie coltivata diminuì soltanto leggermente. Motivo per cui la dimensione media delle aziende aumentò da circa 1,5 ettari a 4 ettari. Cifre che evidenziavano come andassero a scomparire le aziende marginali, attraverso un accorpamento delle aziende più grandi. In realtà era questo uno scenario che riguardava più altri settori dell’agricoltura e meno la viticoltura, dove le caratteristiche aziendali restarono sostanzialmente simili a quelle espresse dal monitoraggio del 1947. Nel frattempo proprio la vite diventò l’elemento sempre più marcante nel volto agricolo dell’intera  valle bagnata dal fiume Calore.
Lo scenario che caratterizzava la campagna solopachese poteva in un certo senso definirsi   invariato rispetto a quello che si registrava alla vigilia del conflitto bellico, quando in paese si contavano solo tre aziende che presentavano una superficie di oltre venti ettari, così come erano solo una quindicina quelle con una superficie aziendale compresa tra dieci e venti ettari, mentre solo poco più di cinquanta aziende superavano i cinque ettari. Il grosso era costituito da aziende da uno a tre ettari (se ne contavano oltre trecentocinquanta) e da aziende con una superficie che andava dal mezzo ettaro ad un ettaro (che erano circa duecentocinquanta).
Questo quadro agricolo presentava alcune caratteristiche oggettive e organizzative piuttosto precise: frammentazione della proprietà; elevato impiego di manodopera; sottoutilizzazione dei mezzi meccanici. Caratteristiche tipiche di un settore che richiedeva una grande mole di energia lavorativa, con l’agricoltura che nel 1951 costituiva in provincia di Benevento la voce dominante nello scenario della forza lavoro, richiamando ben il 76% della popolazione attiva. Una cifra che, per le ragioni su menzionate, resterà altissima per tutto il decennio successivo, considerato che nel 1961 l’agricoltura ancora richiamava una quota pari al 65% della popolazione attiva.  
Dal punto di vista della fisionomia della proprietà sannita, va aggiunto che la maggior parte dei terreni, oltre alla frammentazione, che comportava solamente la mancanza di continuità fisica tra gli appezzamenti di una stessa proprietà, soffriva anche di una accentuata dispersione, fenomeno per cui si registravano anche sensibili distanze tra un appezzamento e l’altro.

A rendere ancora più critica la situazione contribuiva il fatto che il commercio  dell’uva e del vino polverizzato, per quel che riguardava l’offerta, era dominato da un diffuso gruppo di mediatori, piccoli commercianti e soprattutto da pochi commercianti grossisti e da una forte industria enologica, attiva nell’area napoletana, vale a dire nella provincia che era stata da sempre leader nella produzione di uva e dove, a partire dagli Anni Cinquanta, prenderanno a ridursi drasticamente gli ettari coltivati a vigneto.
I prezzi dell’uva e del vino erano assai  bassi e comunque molto spesso insufficienti a garantire persino il minimo reddito vitale alle famiglie di viiticoltori.  E si doveva fare i conti anche con la speculazione dei commercianti, che negli Anni Sessanta dettavano le regole e perpretavano senza scrupoli un sistema che si protraeva da decenni. Si trattava di un sistema già denunciato alla metà degli Anni Trenta dall’allora direttore della Cattedra ambulante di agricoltura per la provincia di Benevento, Giuseppe Sciarra. Gli agricoltori che non disponevano di adeguate strutture e risorse necessarie alla vinificazione dell’intera produzione usavano mettere sotto gli occhi dei commercianti tutta la massa della produzione e raccoglievano le uve accatastandole ai margini dei campi o sui bordi delle strade, attentendo, anche per giorni e giorni, l’arrivo degli acquirenti. A questo punto trovava terreno fertile il gioco speculativo attuato dai commercianti, che ritardavano la contrattazione attentendo – cosa che si verificava spesso – l’arrivo delle piogge, che provocavano l’accellerazione dell’alterazione delle uve, con il conseguente drastico calo dei prezzi delle stesse.   

Come ogni pratica della vita umana è nei momenti di maggiori difficoltà che si riesce ad individuare la strada da percorrere. Così, allo scadere degli Anni Cinquanta era ormai maturata anche nel Sannio la necessità di agire in gruppo. È in questo clima che iniziò ad affiorare l’idea delle cantine sociali, strutture in cui i produttori potevano unirsi per cercare di fronteggiare la crisi della sovrapproduzione e soprattutto delle speculazioni.
«Il passaggio dalle battaglie più strettamente socio-previdenziali a quelle economiche-strutturali mette in evidenza – così descrive quel momento uno dei grandi protagonisti dell’agricoltura sannita, Roberto Costanzo – la necessità di superare il gap storico dei coltivatori, ormai diventato insopportabile, ossia l’assoluta subordinazione nella commercializzazione dei prodotti, ed in particolare per i prodotti agricoli che non si prestano alla conservazione o per i quali i coltivatori non sono attrezzati alla trasformazione e vendita, soprattutto nel comparto vitivinicolo. Da qualche tempo per effetto degli incentivi pubblici anche nei vigneti sono state eseguite opere di ammodernamento e specializzazione e di conseguenza è aumentata la produzione, ma non la capacità contrattuale dei produttori. La voglia di emergere e riscattarsi non cova più sotto la cenere, è ormai emersa. I viticoltori della Valle Telesina , da Guardia a Solopaca e dintorni, sono ormai convinti e pronti a scendere in campo per prendersi in mano finamente il destino della vitivinicoltura sannita. Si attende la scintilla, che nell’inverno - primavera del 1960 si accenderà nella sezione della Coltivatori Diretti di Guardia Sanframondi ad opera di un piccolo gruppo di 33 viticoltori animato da Pasquale Falluto; ed a Solopaca, nell’estate del 1966, da 25 viticoltori con l’assistenza del segretario di zona della Coldiretti, Arturo Tammaro».  

A Guardia Sanframondi la scintilla si accese anche a seguito di un evento calamitoso, un forte nubifragio con grandinata che si abbattè nel mese di giugno distruggendo «i vigneti delle contrade Starze, Cavarena, Monaci, Chianella, Selvapiana e Bosco Caldaia, colpendo le fertili zone di Guardia e Castelvenere. Il sindaco di Guardia, Gabino Garofano, nel tentativo di risollevare le sorti dell’agricoltura del paese, - ricostruisce Erminia Cuomo nel lavoro ‘La nascita de La Guardiense e i primi decenni di attività’ - ricorse al Prefetto di Benevento per rappresentargli la gravità della situazione, al fine di poter accedere agli aiuti previsti in caso di calamità naturale, previa valutazione del danno da parte dell’Ispettorato agrario proviciale. La vendemmia di quell’anno ebbe esiti disastrosi, perché l’uva era di qualità scadente e i commercianti e i mediatori approfittarono per speculare sui già vessati contadini. Infatti, all’epoca l’uva era ammucchiata sulle aie, ai l’agi delle strade provinciali e nazionali, e i contadini rimanevano anche diversi giorni in attesa della vendita e del caricamento sugli automezzi; spesso, le partite ancora invendute venivano alla fine cedute ai commercianti e ai mediatori a prezzi bassissimi, anche col rischio di non riscuotere l’intera somma pattuita. Per risolvere questo problema, diventava sempre più concreta l’esigenza degli agricoltori di doversi organizzare in una cooperativa agricola, con il fine principale di costruire una cantina per lavorare in proprio le uve. Soprattutto per iniziativa della classe politica locale, legata al partito della Democrazia Cristiana, si promosse l’idea di superare la diffidenza spesso insita nei singoli contadini per dare vita all’esperienza cooperativa, senza collegarla, però, a specifici partiti. Così l’8 marzo 1960 venne costituita la Guardiense Società Cooperativa a r.l. per iniziativa di 33 soci fondatori; la presidenza fu affidata a Francesco Morone».

Quello che successe a Solopaca, dove già agli inizi degli Anni Sessanta qualche viticoltore iniziò a nutrire l’idea che fossero maturi i tempi per la costittuzione di una cooperativa anche all’ombra del massiccio del Taburno, è ben descritto nella tesi di laurea in Storia dei processi economici del solopachese Dante Tammaro (il titolo è ‘Nel Sannio – La Cantina sociale di Solopaca 1966-2000’; relatore il professore Ennio De Simone, Anno accademico 2012-2013). «Nell’ambiente solopachese – ricostruisce Tammaro –  fu molto difficile convincere i viticoltori della bontà delle ragioni della cooperativa, per ragioni sia di carattere  culturale (l’individualismo estremo che ha da sempre caratterizzato gli agricoltori sanniti, e che permane, anche se in forma  minore, ancora oggi) che socio - economico. Da una parte, c’era il timore diffuso di non riuscire a vendere il vino prodotto, visto che i soci si sarebbero obbligati a conferire tutta l’uva prodotta: l’abitudine a vendere l’uva anche a prezzi miseri ai compratori del napoletano era molto radicata e rappresentava un guadagno sicuro, anche se irrisorio, per i viticoltori. Inoltre, a Solopaca, nonostante il commercio di vino era stato abbastanza importante fin dall’800, non vi era mai stato un vero e proprio stabilimento vinicolo gestito professionalmente, e l’unica esperienza simile sul territorio, rappresentata dell’enopolio del Consorzio agrario provinciale, si era rivelata fallimentare».
Tutte queste remore ben presto scomparirono. Anche nel Sannio, come in altre aree densamente vitate della Penisola, la mentalità stava cambiando e la realizzazione d’impianti sociali non rappresentava più una chimera, come del resto mostrava lo stesso progetto messo in atto qualche anno prima a Guardia Sanframondi. E lo mostravano anche i sempre più pressanti auspici che provenivano in tal senso soprattutto dalla fascia dei piccoli imprenditori agricoli che, annualmente, all’approssimarsi della vendemmia, soffrivano l’angoscia del collocamento della produzione.  

In questo contesto si inserì quella che senza mezzi termini può essere definita la pagina più importante dell’agricoltura solopachese. Una pagina che ebbe protagonisti venticinque viticoltori, proprietari  di aziende di piccole e medie dimensioni, che alla metà degli Anni Sessanta del secolo scorso, in un periodo di rilevante crisi economica e agricola, decisero di unire le proprie forze per la crescita della più antica tradizione agricola del paese adagiato all’ombra del massiccio del Taburno: l’arte di fare il vino. Si giunse così a quella serata di fine settembre, in cui un ristretto gruppo di viticoltori solopachesi decise di imprimere una epocale svolta ad uno scenario in cui da sempre chi deteneva le redini dei rapporti commerciali era solito ripagare i tanti sacrifici degli agricoltori con la moneta  dell’indifferenza e del sopruso.
Venticinque agricoltori che, in un momento di grande difficoltà, riuscirono a guardare lontano, volgendo lo sguardo verso l’alba di una nuova vitivinicoltura italiana, che andava rivolgendo in maniera sempre più decisa la barra verso la qualità. Venticinque vitivoltori che riuscirono a cogliere quelle che allora, agli occhi dei più, potevano sembrare novità insignificanti, ma che invece presto si sarebbero tradotte in fattori che segnarono profondamente il sistema vitivinicolo del Bel Paese, contribuendo a costruire la sua immagine anche sui mercati esteri.  Primo fra tutti, la legge del 1963 che sancì la nascita delle Denominazioni di Origine che, proprio nel 1966, iniziò a fruttare i primi, concreti riconoscimenti con la nascita di dieci Doc: ‘Aprilia’, ‘Barbaresco’, ‘Barolo’, ‘Bianco di Pitigliano’, ‘Brunello di Montalcino’, ‘Est! Est!! Est!!! di Montefiascone’ ‘Frascati’, ‘Ischia’, ‘Vernaccia di San Gimignano’ e ‘Vino Nobile di Montepulciano’.
Venticinque agricoltori che non si fermarono davanti ai rischi che pure erano disseminati lungo il percorso della cooperazione. Consapevoli dell’esperienza fallita dell’Enopolio attivato in paese (nelle vicinanze della stazione ferroviaria) alla metà degli Anni Cinquanta, che pure era stato avviato fra tante speranze, inaugurato in pompa magna alla presenza del presidente nazionale della Coldiretti e della Federconsorzi, l’onorevole Paolo Bonomi. L’Enopolio ricalcava le orme di un esperimento simile che si era registrato alla metà degli Anni Trenta.

Si trattava di uno scenario irto di dubbi e rischi, legati a fattori intrinseci al percorso della cooperazione vitivinicola sannita, che ricalcavano sostanzialmente le dinamiche che erano proprio della cooperazione agricola in campo nazionale. La cooperazione aveva vissuto nei primi decenni del Novecento momenti di grande euforia anche nel Sannio. Soprattutto in campo vitivinicolo si assistette ad un periodo segnato da tante speranze legate a diversi progetti cooperativistici. Percorsi  poi interrotti, anche a causa delle opportunità sempre minori offerte dalle politiche agrarie attuate dal regime fascista, il cui sguardo fu più rivolto ai granai che alle cantine. Questo fattore nel Sannio produsse effetti particolarmente negativi, a cui andarono a sommarsi anche le conseguenze della fillossera, che fece la sua comparsa in provincia praticamente in concomitanza con l’avvento del regime.
L’atto di coraggio dei soci fondatori della Cantina sociale di Solopaca si concretizzò anche grazie al ruolo importante ed efficace che rivestirono nella vicenda alcuni rappresentanti dell’organizzazione professionale che controllava la maggior parte delle aziende della zona: la Federazione dei Coltivatori Diretti. La Coldiretti, insieme al suo referente partitico di governo, la Democrazia Cristiana, rivestirono una funzione importante nella creazione di cantine sociali in quasi tutti gli angoli della Penisola.
Nel Sannio però questo rapporto assunse un carattere del tutto particolare, considerato che sia i trentatrè viticoltori che diedero vita alla cooperativa di Guardia Sanframondi che i venticinque protagonisti della fondazione della Cantina sociale di Solopaca chiesero, sin dal primo momento, di tenere lontano la politica. Fu con quest’ottica che i venticinque coltivatori solopachesi presero contatti con l’onorevole Roberto Costanzo, allora assessore regionale all’agricoltura oltre che esponente di spicco della Coldiretti sannita guidata da Mario Vetrone. «La fase costituente della cooperativa di Solopaca ha una storia che merita di essere ricordata. Di solito, la costituzione di un’importante società cooperativa – così ricorda quella intensa ed animata fase preparatoria l’onorevole Costanzo – è il frutto dell’immaginazione di un dirigente sindacale o del carisma di un esponente politico. La Cantina di Solopaca certamente si è avvalsa in quegli anni, ed anche successivamente, di un certo sostegno sindacale e politico (la Coldiretti e la Dc) ma l’intuizione e la voglia di partire in forma associata – siamo nell’estate del 1966 – fu tutta di un lungimirante gruppo di viticoltori solopachesi guidati da Arturo Tammaro, tramite il quale vollero prendere contatto con il sottoscritto per un sostegno tecnico, precisandomi che la loro era un’iniziativa che doveva nascerere estranea ad ogni partito, pur riconoscendosi nella politica agricola della Coldiretti ed essendo disposti ad accettare in seguito eventuali necessari aiuti politici. I ventincinque viticoltori – promotori, fondatori e conduttori della fase costituente della cooperativa – mi vollero incontrare segretamente, quasi in forma clandestina, in una casa di campagna poco lontano dal luogo in cui poi fu costruito lo stabilimento della Cantina ; tra l’altro, mi chiesero di rispettare e di aiutarli a far rispettare l’autonomia e l’autogoverno della cooperativa».

Si trattò sicuramente di un atteggiamento rivoluzionario, considerata la propensione per l’agricoltore – ancor di più per un agricoltore sannita – a giudicare la politica come un mestiere complicato e difficile, a scegliere la strada della delega. Ma i venticinque protagoniti decisero di non delegare, mirando soprattutto a garantire un futuro indipendente all’avventura. Una scelte che ebbe il merito di tenere lontano da questo virtuoso progetto probabili «sponsor» politici il cui unico fine – certamente non dichiarato, anzi ben celato sotto le iniziative proposte – sarebbe stato quello di una politica utilitaristica.
Timori che erano giustamente fondati. Infatti, nel corso degli Anni Sessanta come pure nel decennio successivo, non mancarono iniziative di cooperazione vitivinicola che fallirono presto. Si trattò principalmente di progetti che videro all’opera politici e amministratori di cantine la cui unica capacità (o meglio scopo) fu quella di tenere legati i soci alle cooperative usando argomenti che promettevano essenzialmente finanziamenti ed assistenza. Una linea di condotta che si rilevò assai deleteria, non solo per i coltivatori. Questo modo di operare produsse come unico effetto il distacco dalle cantine dei soci, i quali, non avendo un’effettiva possibilità di intervenire e di controllare la gestione dell’azienda, reagirono disertando le assemblee e limitando al minimo, e in genere alle uve di qualità più scadente, i conferimenti. Generando così grandi difficoltà di gestione che, molto spesso, portarono nel corso di un breve periodo a desolanti situazioni di liquidazione coatta o addirittura di fallimento.

Vista in quest’ottica, una cantina sociale sarebbe riuscita al massimo a svolgere ruoli secondari, raccogliendo il prodotto solo di quelle aziende relegate da margini del mercato, fungendo quindi esclusivamente da serbatoio, presentandosi così unicamente come ente a carattere assistenziale. A Solopaca, invece, la cooperativa diventò ben presto punto di riferimento di un vero e proprio esercito di viticoltori. Ai 25 soci fondatori nel corso del primo anno di vita della coperativa se ne aggiunsero più di 100; nel 1970 il numero dei soci salì a 245; l’anno successivo l’escalation toccò la cifra di 497 soci; nel 1972 si raggiunse la quota di 570 soci. Tutto questo nonostante non mancassero scontri con alcuni protagonisti dello scenario politico locale, che mal sopportavano proprio il loro mancato coinvolgimento nella gestione della cooperativa.
La Cantina sociale di Solopaca, come quella nata a Guardia Sanframondi sei anni prima, fu pensata in un contesto di precarietà di prezzi e di incertezza di prospettive, spesso ingigantite da una abbondanza di offerta di prodotto in un’area che si andava sempre più attrezzando come zona di viticoltura specializzata. Il progetto varato dai venticinque agricoltori solopachesi si dimostrò una risposta innovativa ed efficace, una grande prova di coraggio che presto si trasformò in linfa preziosa per fronteggiare decenni di profondo cambiamento per la vitivinicoltura.
Lo sforzo dei primi anni fu quello di realizzare sul campo l’idea progettuale, dando vita ad una struttura produttiva che fosse efficiente sotto il profilo organizzativo e tecnico, per essere al passo con il panorama enologico nazionale sempre in crescita dal punto di vista qualitativo. Il tutto tenendo sempre fermo l’impegno di garantire un adeguato reddito agli agricoltori soci, che crebbero vertiginosamente nell’arco di un solo quinquennio. Lo stabilimento venne completato nel 1971 e già nel 1974 la lavorazione di uve superò abbondantemente i 50.000 quintali, anche se si dovette registrare un calo nel triennio 1974-1977 dovuto al subentrato obbligo di conferimento totale.
È con questa forza che la moderna struttura di via Bebiana si affacciò sulla seconda metà degli Anni Settanta, il periodo del grande cambiamento dei costumi sociali. Anni non semplici, perché a livello nazionale iniziarono a farsi sentire con forza sempre maggiore le criticità legate ad una eccedenza produttiva. Criticità notevolmente rafforzate anche da una rapida discesa del consumo che si registrò a partire da quegli anni soprattutto nei Paesi a maggiore produzione vitivinicola (Italia, Francia e Paesi del Mediterraneo in generale). In questi Paesi, dove dall’indomani della seconda guerra mondiale si era assistito ad un continuo e marcato aumento di alcol totale consumato, si iniziò a fare i conti con una grande trasformazione delle abitudini a tavola, con il vino che cessava di essere esclusivamente un prodotto alimentare ed iniziava ad assumere il volto di vero e proprio status-symbol.

L’attività della cooperativa solopachese, insieme a quella di Guardia Sanframondi e alla cantina di Foglianise gestita dal Consorzio agrario di Benevento, contribuirono non poco al percorso che darà vita alla specializzazione della viticoltura sannita. Lo confermano i dati relativi alle superfici coltivate a vite.  Nel 1960 in provincia di Benevento la superficie a viticoltura specializzata ammontava a 8.502. Si tratta di un dato che segnava addirittura un sostanzioso calo rispetto a quanto si registrava all’indomani del secondo conflitto bellico, considerato che nel 1950 gli ettari a viticoltura specializzata erano 9.535. Nel 1965 gli ettari scesero a 8.494, per balzare in un solo colpo nel 1970 alla cifra di 13.710 ettari. In quest’ultimo quinquennio si registrò contemporaneamente il quasi azzeramento dei vigneti in coltura promiscua, che passarono dai 33.539 ettari del 1965 ai 4.230 ettari del 1970. È in questi cinque anni che Benevento iniziò la sua escalation verso l’incontrastato primato nell’ambito della produzione regionale, con la viticoltura che andava acquistando sempre maggiore forza nel panorama agricolo (e non solo agricolo) della terra sannita.
A rafforzare lo stato di salute del vino sannita giunse nel 1973 il riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata ‘Solopaca’, ottenuto con il decreto firmato il 20 settembre  del Presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Un importante “marchio di certificazione” per il vino che, pur legando il suo nome a quello della cittadina adagiata all’ombra del Taburno, si produceva con le uve dei Comuni a maggiore vocazione viticola del Sannio. Il disciplinare includeva i territori comunali di Solopaca, Guardia Sanframondi, San Lorenzo Maggiore e Castelvenere e parte di quelli di Cerreto Sannita, San Lorenzello, Faicchio, San Salvatore Telesino, Telese Terme, Melizzano, Frasso Telesino e Vitulano.  In questa ampia zona, che si estende dalle pendici occidentali e sud-occidentali del Taburno-Camposauro a quelle orientali e sud-orientali del Matese, già alla metà degli Anni Settanta la vite aveva preso ad assumere una grande intensità colturale,  occupando oltre 6.000 ettari di superficie coltivata, di cui i quattro quinti a coltura specializzata. La resa per ettaro variava da un minimo di 70 quintali nelle zone più alte ad un massimo di 250 in quelle pianeggianti ed irrigue di Telese, con una produzione complessiva media annua che si aggirava intorno ai 250.000 quintali di uve rosse e ai 400.000 quintali di uve bianche. Il percorso mirato alla specializzazione come primo risultato portò, infatti, ad un incremento sostanziale dal punto di vista della produttività dei terreni. Alla fine degli Anni Settanta (i dati sono riferiti alla vendemmia del 1978), nell’intero Sannio si produssero 1.185.000 quintali di uva e 818.000 ettolitri di vino. Si trattava di un dato che faceva riferimento ad una superficie coltivata a vigneto che presentava 14.606 ettari a viticoltura specializzata e 3.954 ettari a viticoltura promiscua, frutto  di una produzione che oramai toccava gli 80 quintali per ettaro. Ben altra cosa rispetto alla vigilia della seconda guerra mondiale, quando i quintali di uve prodotte per ettaro  risultavano essere in media 44.

A cavallo tra gli Anni Settanta ed Ottanta la cooperazione diventò la voce più importante nel sistema vitivinicolo sannita. La Cantina di Solopaca raccoglieva oltre 400 soci conferenti, con una capacità lavorativa di oltre 80.000 quintali di uva; quella di Guardia Sanframondi contava circa 850 soci conferenti, con una capacità lavorativa di circa 200.000 quintali di uve; quella di Foglianise di soci ne contava circa 450, con una capacità potenziale di 55.000 quintali di uve. Un percorso da potenziare. «Per recuperare il tempo perduto – scriveva Aniello De Gennano nella conclusione dell’interessante saggio ‘La vite nella provincia di Benevento’ –  è necessario che gli agricoltori si associno per assumere una maggiore potenza contrattuale allo scopo di valorizzare la produzione e per rimuovere o eliminare quegli elementi perturbatori che purtroppo ancora si frappongono nella fase della commercializzazione. In particolare per la vitivinicoltura la firma cooperativa garantisce in maniera chiara e generalizzata al produttore una parte dei valori aggiunti della trasformazione e della commercializzazione. La necessità socio-economica di collegare strettamente la produzione e la commercializzazione e nella vitivinicoltura, più che negli altri settori, connaturata alla forma cooperativa. Appare quindi opportuno che si realizzino al più presto non solo altre cantine sociali per recuperare la restante parte della produzione locale di uva, ma la cooperazione di secondo grado per la commercializzazione, perché sarà proprio questo tipo di consorzio che da maggiore stabilità e sicurezza allo sviluppo della vite nel beneventano e garanzia finanziaria agli operatori viticoli».
In realtà quella fase di crescita del vino sannita subì una brusca interruzione a causa soprattutto del noto scandalo del metanolo. Nel mese di marzo del 1986 ventitré persone persero la vita e diverse decine subirono lesioni gravi a causa delle intossicazioni causate dalla pratica di “dopare” il vino che coinvolse diverse aziende delle regioni settentrionali. Si utilizzava metanolo, un alcool naturale, che veniva aggiunto per mascherare la scadente qualità della spremitura delle uve e per innalzare illecitamente la gradazione alcolica. Il metanolo venne impiegato in dosi elevate, tanto da provocare morti e danni permanenti.
Un segno indelebile nella storia enologica dl nostro Paese. Furono momenti difficili, nel Sannio superati anche grazie all’importante missione delle cantine cooperative. Momenti difficili che innescarono un’autentica rivoluzione nel mondo del vino italiano, messa in atto attraverso la modernizzazione delle cantine sociali e lo sviluppo di nuove piccole aziende, che assunsero il ruolo di protagonisti sempre più consapevoli dell’avvertita esigenza di dover percorrere la strada della qualità. Si trattò di un compito non semplice soprattutto per le cantine sociali, considerato che lo scossone dello scandalo del metanolo, con tutte le sue conseguenze sull’immagine del vino italiano, fu particolarmente letale proprio per il settore cooperativistico: nel decennio che seguì quasi duecento cantine sociali cessarono di esistere, riducendo in pochi anni di circa il 25% il numero delle strutture cooperativistiche attive in Italia.

La nascita della Cantina sociale di Solopaca, dunque, rispose a precise esigenze di ordine economico. L’auspicio era sostanzialmente quello di veder trasformare un’agricoltura magra e faticosa. Uno scenario agricolo dove il beneficio delle produzioni era, tra l’altro, troppo spesso assottigliato per chi sulla terra ci stava, ad esclusivo vantaggio di chi la sfruttava a solo scopo mercantilistico. Quei ventincinque soci fondatori ebbero il merito di dare avvio ad una diversa e creativa concezione, fondata sulla partecipazione e sull’utile diretto del piccolo proprietario, che dunque potette a quel punto accingersi a divenire imprenditore di se stesso. Ma in questa avventurosa storia non si fatica a cogliere anche la ferma volontà di difendere la sopravvivenza di un mestiere tramandato con competenza e amore dalle generazioni precedenti, di non tradire la straordinaria vocazione di una terra naturalmente predisposta alla produzione di uve di qualità. Fu un atto di coraggio di cui l’intera comunità solopachese deve sentirsi orgogliosa. Una scelta a un tempo culturale ed economica, alla quale ancora oggi i soci della Cantina di Solopaca si ispirano per affrontare le sfide di un mercato sempre più selettivo e competitivo.

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